APPELLO 27 NOVEMBRE 2021- NON UNA DI MENO: CORTEO NAZIONALE A ROMA

APPELLO DI LANCIO: SAREMO MAREA CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE E DI GENERE 

Non Una di Meno è il grido della  marea femminista e transfemminista che scenderà in piazza il 27 Novembre per riprendersi le strade di Roma. 

Dopo due anni di pandemia non sta andando “tutto bene”. L’emergenza e la crisi che ne è seguita si sono scaricate su di noi, e ora siamo strette tra un piano di ripresa e resilienza che non ci contempla e una polarizzazione del dibattito pubblico che ci cancella. La deriva patriarcale, razzista e individualista attraversa il dibattito pubblico e attacca la solidarietà, la cura collettiva, l’accesso alla salute per tutt* come priorità dell’agenda politica post pandemica.

Da inizio anno, in Italia, sono più di 90 i femminicidi, 3 i transcidi

Il piano triennale anti-violenza istituzionale è scaduto nel 2020 e non viene ancora rinnovato. I fondi sono bloccati e della nuova bozza non si sa ancora nulla. I centri antiviolenza non sono meri servizi, serve il pieno coinvolgimento nella definizione delle strategie di contrasto alla violenza, il riconoscimento dell’autonomia dei Centri antiviolenza femministi e i fondi per i percorsi di fuoriuscita e autonomia. Il reddito di libertà per le donne che fuoriescono dalla violenza riassume una politica ipocrita: 400 euro al mese per 12 mesi che non possono garantire autonomia. È una misura razzista perché inaccessibile per le donne migranti irregolari in Italia. Inoltre, i fondi stanziati sono insufficienti perché su oltre 20.000 donne accolte nei CAV ne potrebbero beneficiare solo 625. 

Grazie a “civilissimi” accordi internazionali, donne e uomini migranti continuano a subire violenza: muoiono in mare e nei centri di detenzione in Libia o sui confini dell’Est Europa, le e i migranti che riescono ad arrivare in Italia devono fare i conti con il razzismo istituzionale che lega la presenza delle donne al potere di un padre o un marito o di un datore di lavoro che possono decidere sulle loro vite e sulle loro condizioni di sfruttamento sotto il ricatto del permesso di soggiorno.

I casi di discriminazione e di violenza su persone trans, queer e LGBTQIAP*+ continuano ad aumentare, mentre in Parlamento si applaude per l’affossamento del Ddl Zan, che è per noi un attacco di violenza istituzionale . Le lotte delle persone queer, lesbiche, bisessuali, froce, trans, non binarie, intersexreclamano molto più di Zan! Riaffermiamo l’autodeterminazione sui nostri corpi e sulle nostre vite. Vogliamo educazione sessuale, all’affettività e alla differenza di genere nelle scuole. 

Siamo le donne e persone LGBTQIAP*+ che durante la pandemia hanno subito violenza, sono state licenziate, e sfruttate nei magazzini, che sanificano gli ospedali, senza tutele e senza presidi sanitari. Siamo le precarie, quelle su cui è ricaduto tutto il lavoro di cura, siamo le migranti, badanti e colf che la sanatoria doveva regolarizzare e che ha fatto precipitare in una situazione di invisibilità e ricatto.

Siamo il grido delle donne e delle persone LGBTQIAP*+ che hanno pagato la convivenza forzata, la dipendenza economica e l’assenza di strutture di accoglienza con l’esplosione della violenza domestica.

Lottiamo per un permesso di soggiorno europeo slegato da famiglia e lavoro, per un reddito di autodeterminazione non condizionato, per un salario minimo europeo e un welfare pensato sulle nostre esigenze.

Siamo il grido di tutte le donne che combattono in tribunale contro ex partner violenti e subiscono la minaccia della revoca dell’affido dei figli. Abbiamo respinto il Ddl Pillon, ora vogliamo la PAS (sindrome da alienazione parentale) fuori dai tribunali!

Siamo corpi sensibili e invisibili, corpi malati, disabili, vulnerabili, pretendiamo cure, assistenza, ricerca e strumenti diagnostici garantiti dal Sistema Sanitario Nazionale per riprenderci la vita, l’autodeterminazione, il desiderio e il piacere. Vogliamo accesso all’aborto, al teleaborto e alla RU486 in tutte le regioni e gli obiettori fuori dalla sanità pubblica. Siamo corpi nella quarta ondata: il vaccino è un diritto globale, non un privilegio per ricchi.

Vogliamo una giustizia climatica perché sappiamo che la transizione ecologica proposta dall’Europa è in realtà una nuova imposizione di ordine e di sfruttamenti. 

Il 20 novembre saremo in piazza a Roma per la Trans Freedom March e nelle diverse città per celebrare il Transgender Day of Remembrance perché rifiutiamo una contrapposizione tra donne e persone LGBTQIAP*+. Noi sappiamo che le nostre oppressioni sono connesse perché provengono da una stessa matrice di violenza patriarcale che è strutturale e che innerva l’intera società. 

Segneremo il 25 novembre – giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – con azioni dislocate di denuncia e contro-narrazione dei femminicidi e trans*cidi

IL 27 NOVEMBRE SAREMO IN CORTEO A ROMA! Occuperemo le strade con la nostra rabbia:

perché rifiutiamo una ripresa che cancella le cause e gli effetti della pandemia sulle nostre vite!

perchè siamo il grido altissimo e feroce di chi non ha più voce!

perchè ci vogliamo viv3 e liber3!

Contro la violenza ci organizziamo: saremo un corpo collettivo e creativo senza spezzoni né bandiere e simboli di partito o sindacato. Invitiamo tutt3 a portare in piazza cartelli e panuelos fuxia, e a sintonizzarsi sulle azioni collettive che si daranno lungo il corteo e che verranno comunicate. Sarà impegno condiviso la cura e la tutela della salute di tutt3.

TORNIAMO MAREA!

NON UNA DI MENO

Qui le info sui pullman a Roma da tutta Italia

Evento facebook

ASSEMBLEA NAZIONALE BOLOGNA 2021: REPORT TAVOLO FEMMINISMI E TRANSFEMMINISMI

La discussione portata avanti nel tavolo femminismi e transfemminismi può apparire astratta, ma in realtà parla di condizioni materiali che riguardano contemporaneamente l’esperienza del nostro movimento e la sua proiezione in avanti, le sue pratiche, la sua iniziativa. Va detto subito che è stata una discussione anche molto ricca in termini di racconti di esperienze e di conseguenti proposte: dalle pratiche di educazione alle differenze nelle scuole (con le ritorsioni verso le insegnanti che le hanno portate avanti) al transfemimnismo ecologista antispecista e antimilitarista; dagli interventi diretti nelle periferie contro razzismo e violenza contro le donne e violenza omolesbobitransfobica al rapporto con le lavoratrici sessuali da stringere e approfondire, alle esperienze di contrasto al sessismo nei movimenti, alle pratiche digitali di trasformazione dei linguaggi e artistiche di potenziamento del corpo al di fuori dei canoni patriarcali, abilisti e commerciali della sua definizione, alle esperienze queer vissute dalle più giovani in contesti che non sono segnati solo dall’essere vittime, ma dal desiderio e dall’amore.

Non si può in sintesi tornare su tutto questo ma bisogna provare a restituire i punti guida di questa discussione. 

All’inizio della discussione c’è stato un momento di silenzio che forse esprimeva il timore di produrre tensioni o contraddizioni. Queste esistono, ma sono il segno di una ricchezza soggettiva e di una complessità reale. Ma la discussione è stata portata avanti non per trattare femminismi e transfemminismi come scatole chiuse che al massimo possono produrre un’alleanza al ribasso. L’intento è stato quello di rilanciare un’iniziativa intersezionale anche a partire dalla critica e dell’autocritica della nostra esperienza e su un piano di reciprocità. Quello che è emerso è che non è possibile o desiderabile omogeneizzare i discorsi e le pratiche, ma di riconoscere che ci sono differenze materialmente e politicamente significative. Diversi sono i femminismi e transfemminismi che pratichiamo e che dovrebbero modificarsi reciprocamente dentro a percorsi e lotte condivisi. Diverse sono le condizioni di vita e di lavoro in cui viviamo, e che quelle lotte devono intercettare. Quindi il senso del tavolo è stato proprio quello di trovare terreni di lotta comuni, di convergenza che non cancella la differenza e la specificità delle lotte e dei linguaggi.

Riconosciamo che ci sono donne, che fatichiamo a chiamare femministe, i cui discorsi finiscono per sostenere il contrattacco patriarcale, fissando le donne nella loro presunta essenza biologica e giustificando la violenza omolesbobitransfobica, come è stato evidente nel dibattito sul DDL Zan. Sia nella plenaria di ieri mattina sia nel tavolo c’è stata chi ha invitato a distinguerci da queste sedicenti femministe. La pratica e i discorsi condivisi in questi anni rendono però chiaro che NUDM si è mossa fin dal principio su un altro piano perché non ha mai praticato un femminismo essenzialista e sin da subito è stata animata dalle lotte portate avanti dalle donne insieme alle persone LGBTQIA+. Nella discussione sono emerse differenze territoriali che riguardano l’apertura e la capacità delle assemblee di essere concretamente attraversate dalle lotte delle persone LGBTQIA+, e certamente vanno affrontate. Si è anche preso atto del fatto che NUDM non dispone degli stessi mezzi e della stessa visibilità pubblica e mediatica di quelle sedicenti femministe, e questo è un limite da affrontare perché non abbiamo nessuna intenzione di lasciare il femminismo in mano a donne che accettano che le persone trans siano discriminate e sfruttate. Tuttavia, noi sappiamo anche che questo femminismo transescludente è una manifestazione molto piccola del grande contrattacco patriarcale che dobbiamo fronteggiare e non dobbiamo fare l’errore di confondere la visibilità mediatica con una forza politica. Partiamo da noi, dalla forza di un movimento di massa che ha trasformato il femminismo mettendone in questione le pratiche storiche e arricchendone le aspirazioni. Pratiche come il separatismo (di cui riconosciamo la forza di rottura ma ora non risponde ai piani di iniziativa che dobbiamo affrontare), aspirazioni come quella di fare della differenza una forza politica. Tutto questo è stato possibile anche in forza del processo dello sciopero, che ci ha permesso di trasformare il rifiuto della

 violenza patriarcale contro le donne e le persone LGBTQIA+ in un momento di contestazione della società nel suo complesso, della sua forma neoliberale e delle sue condizioni razziste.

Per rispondere alla violenza misogina e queerfobica che ci colpisce dobbiamo sapere che si manifesta in modi diversi in Italia o nell’Est europeo, in Turchia o in Texas, e che altrettanto diverse sono le condizioni e le lotte delle donne e delle persone LGBTQ nei diversi contesti.  Non si può pretendere di ricondurre tutto questo a omogeneità. Il livello transnazionale su cui ci muoviamo ci impedisce di parlare di noi stesse come se condividessimo tutte e tutt* un’identica oppressione. Le critiche al femminismo radicale portate avanti dalle donne nere, operaie e lesbiche sono state su questo molto chiare: non siamo tutte oppresse allo stesso modo e la sorellanza è un risultato della lotta, non un presupposto dato. Nominiamo quindi le differenze: a livello transnazionale le condizioni vanno dalla più dura repressione alla liberalizzazione e valorizzazione per il profitto delle identità. Il razzismo istituzionale rende più difficile sottrarsi alla posizione di subordinazione nella divisione sessuale del lavoro, limita gli spazi dell’autodeterminazione sui nostri corpi, colpisce chi scompagina l’eterosessualità prescritta dall’ordine patriarcale. Nel tavolo è stata denunciata la difficoltà di costruire spazi di agibilità politica con le persone trans, le persone migranti e colpite dal razzismo, chi pratica il lavoro sessuale. Bisognerebbe aggiungere che nemmeno tutte le donne che vogliono lottare contro la violenza sono dentro a NUDM. La riflessione sul linguaggio riguarda la nostra capacità di produrre un movimento quanto più espansivo e capillare possibile. Il nostro discorso deve coinvolgere coloro che dovrebbero dare corpo e forza alla nostra lotta condivisa. Non tutte le persone LGBTQIA+, migranti e colpite dal razzismo, e nemmeno tutte le donne, hanno lo stesso linguaggio e non basta elencarle per creare le condizioni del loro protagonismo. Allora forse la nostra sfida dovrebbe essere quella di nominare, denunciare, contestare le condizioni concrete in cui ciascuno

di questi soggetti vive, individuando una possibilità condivisa di lottare contro quelle condizioni opprimenti. E’ stato proposto di rinunciare a usare termini binari. Dobbiamo sapere però che quel binarismo che impone posizioni di dominio e ruoli di genere sulla base del sesso e del corpo in cui siamo nate e nat* continua effettivamente a colpire le donne e le soggettività dissidenti cercando di determinare, anche con la violenza, la loro esistenza. E’ stato proposto di non parlare di orientamento sessuale per riconoscere la pluralità delle pratiche già esistenti. Dobbiamo però sapere che le persone sono colpite dalla violenza patriarcale perché non si adeguano a una sessualità subordinata alla famiglia patriarcale e all’ordine eterosessuale della riproduzione, perché rivendicano la propria autodeterminazione sessuale contro l’autorità. Affinché il nostro linguaggio sia efficace deve essere un laboratorio costantemente orientato a contestare patriarcato, razzismo e neoliberalismo nelle loro manifestazioni molteplici. La possibilità di un linguaggio comune dipende dalla nostra capacità di produrre relazioni entro le quali i discorsi comuni vengono costruiti.

Essere femministe e transfemministe valorizzando quella congiunzione significa riconoscere un approccio transnazionale, intergenerazionale, intersezionale, e che tenga conto delle condizioni di classe e materiali. Significa partire da pratiche ed esperienze di cui sono protagoniste le donne e le persone LGBTQIA+ quando sfidano la divisione sessuale del lavoro, la famiglia come istituzione che impedisce di vivere la propria sessualità liberamente, quando contestano la radice patriarcale e razzista del neoliberalismo. Queste sono le linee di conflitto che vengono praticate da donne e persone LGBTQIA+ a cui il patriarcato sta rispondendo con la violenza. Contro questa violenza noi dobbiamo prendere posizione in maniera espansiva, radicale e interconnessa, senza cancellare le differenze e la complessità ma facendole convergere in un processo condiviso.

*Foto di Saraliù Bruni

27N NON UNA DI MENO: MANIFESTAZIONE NAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE E DI GENERE A ROMA

📣 Il corteo partirà alle ore 14.00 da Piazza della Repubblica, a breve le info sul percorso e l’appello di lancio…Stay tuned.

💥Saremo marea femminista e transfemminista
💥Perché ci vogliamo vivə e liberə dalla violenza
💥Perché rifiutiamo una ripresa che cancella le cause e gli effetti della pandemia sulle nostre vite
💥Perché siamo il grido altissimo e feroce di chi non ha più voce⚡🚌 Pubblicheremo qui l’elenco dei pullman provenienti dalle varie città.

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*Foto scattata nel corso dell’ultima assemblea nazionale di Non una di meno a Bologna da Stefania Biamonti

TRACCIA TAVOLO FEMMINISMI E TRANSFEMMINISMI-VERSO L’ASSEMBLEA NAZIONALE A BOLOGNA

L’esperienza che abbiamo condiviso al grido Ni Una Menos ha trasformato il femminismo, riarticolando gli immaginari di molteplici movimenti, collettivi e reti dal basso, in un grande processo transnazionale. Scioperare contro la violenza patriarcale ha significato riconoscere che quella violenza è strutturale, che è una pratica sociale di subordinazione che colpisce le donne ma coinvolge l’intera società, che incide sulle condizioni generali di vita e di lavoro, che si intensifica con il razzismo che colpisce migranti e seconde generazioni nate in Italia, che limita qualunque libertà sessuale e pratica di genere che non sia obbediente alle posizioni e alle gerarchie che il dominio maschile impone.

Per questo motivo il femminismo che ha vissuto nel processo dello sciopero non è mai stato un movimento, un discorso o una pratica basati su una presunta identità essenziale delle donne, ma sin dal principio si è mosso e trasformato nella lotta contro le forme della riproduzione sociale neoliberale e nella convergenza con lesbiche, froce, trans, bisessuali, persone intersex e queer. È stato così nelle straordinarie giornate di Verona Città Transfemminista, quando in 100mila abbiamo preso le strade per contestare il World Congress of Families; è stato così il primo luglio, quando rispondendo alla chiamata transnazionale della rete EAST abbiamo contestato gli attacchi alla Convenzione di Istanbul denunciando come, in Turchia come nell’Europa dell’Est, quegli attacchi sono andati di pari passo con feroci politiche ‘anti-gender’.

L’alleanza tra femminismo e transfemminismo che abbiamo praticato non è una semplice sommatoria di discorsi o pratiche, ma una risorsa per rispondere al contrattacco che cerca di rigettarci nella completa subordinazione imposta dal patriarcato familista, capitalista, razzista, fondamentalista e reazionario. Discutere insieme e apertamente dell’intreccio tra femminismo e transfemminismo in occasione della prima assemblea in presenza di NUDM dopo la pandemia è allora di grande importanza. 

È necessario non solo per combattere l’aumento esponenziale della violenza contro le donne e della violenza omolesbobitransfobica, ma anche perché in ogni parte del mondo assistiamo a tentativi – diversi per intensità, ma uguali nel significato e negli intenti politici – di contrapporre la libertà e i diritti delle donne a quelli delle persone LGBT*QIA+ per indebolire le lotte e rinsaldare il dominio patriarcale in nome della famiglia, della difesa dell’autorità e della riproduzione delle gerarchie, dell’intensificazione dello sfruttamento del lavoro migrante ed essenziale dentro e fuori casa, della criminalizzazione del lavoro sessuale e di chi lo pratica.

Questa divisione si è vista in Italia nel dibattito sul DDL Zan, quando in nome di un femminismo in cui non ci riconosciamo alcune donne hanno di fatto prestato il fianco alla legittimazione della violenza omolesbobitransfobica. D’altra parte, sappiamo che è importante ma non è sufficiente, né per le donne né per le persone LGBT*QIA+, ottenere riconoscimenti minimi e inadeguati in termini di diritti, o programmi ‘autoimprenditoriali’ di uscita individuale dalla subordinazione, perché oggi più che mai è necessario accumulare la forza per rovesciare la violenza sistemica che ci opprime e modificare le condizioni materiali – di reddito e di salario, razziste e autoritarie ‒ che in Italia e in tutto il mondo limitano le nostre possibilità di autodeterminazione, che si intersecano determinando le nostre diverse esperienze, che influenzano la nostra capacità di mettere in comunicazione le lotte.  Per questo nel tavolo Femminismo e Transfemminismo dell’Assemblea nazionale di Non Una di Meno vogliamo discutere di:

-Quali possibilità e quali difficoltà abbiamo di fronte per rilanciare l’intersezione delle lotte

– Come spiazzare e rovesciare il tentativo di frammentare le lotte e contrapporre la libertà delle donne a quella delle persone LGBT*QIA+

-Come creare uno spazio politico espansivo, capace di nominare e contestare le differenti condizioni materiali in cui la violenza agisce e che limitano la libertà sessuale e pratiche di genere che minacciano l’ordine esistente

-Come costruire un linguaggio capace di parlare al di fuori degli spazi assembleari, senza riprodurre etichette ma dando espressione alle istanze di autodeterminazione di chi, nei modi più diversi, lotta contro la violenza maschile e omolesbobitransfobica.

Qui tutte le info sull’assemblea nazionale a Bologna del 9-10 ottobre 2021

*Foto di Valeria Altavilla

NON UNA DI MENO: PRIMO LUGLIO TRANSFEMMINISTA E TRANSNAZIONALE CONTRO L’ATTACCO PATRIARCALE

Il primo luglio – la data ufficiale di uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul – Non Una di Meno si unirà alle proteste in Turchia, nell’Europa dell’Est e non solo. Ecco l’appello di Non Una di Meno.

In Italia, in Europa e in tutto il mondo, l’attacco patriarcale e la violenza contro le donne e le soggettività LGBT*QIA+ continuano a intensificarsi. Sappiamo bene che la violenza si manifesta in ogni ambito della nostra vita e in moltissime forme, e di cui i femminicidi sono solo quella più visibile. 𝗦𝗼𝗹𝗼 𝗶𝗻 𝗜𝘁𝗮𝗹𝗶𝗮, 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗼𝗹𝘁𝗿𝗲 𝟰𝟱 𝗹𝗲 𝗱𝗼𝗻𝗻𝗲 𝘂𝗰𝗰𝗶𝘀𝗲 𝗱𝗮𝗹𝗹’𝗶𝗻𝗶𝘇𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗮𝗻𝗻𝗼.

Eppure, mentre il Piano nazionale antiviolenza è scaduto ormai da mesi, il contrasto alla violenza maschile e di genere e il sostegno ai Centri antiviolenza non hanno nessuno spazio nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La violenza è gestita in maniera emergenziale e scarsissimi sono gli investimenti economici e politici in tema della prevenzione necessaria per una trasformazione culturale radicale e per contrastare la matrice patriarcale di questa violenza.

Mancano ore di 𝗲𝗱𝘂𝗰𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝘀𝗲𝘀𝘀𝘂𝗮𝗹𝗲 e 𝗮𝗳𝗳𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗮 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗲 𝘀𝗰𝘂𝗼𝗹𝗲, manca formazione a tutte quelle figure che operano e lavorano con le persone giovani. Intanto la crisi conseguente alla pandemia ci colpisce ferocemente. Il blocco dei licenziamenti non è riuscito a preservare i nostri posti di lavoro: a dicembre 2020, infatti, 𝘀𝘂 𝟭𝟬𝟭𝗺𝗶𝗹𝗮 𝗽𝗼𝘀𝘁𝗶 𝗱𝗶 𝗹𝗮𝘃𝗼𝗿𝗼 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗶 𝗯𝗲𝗻 𝟵𝟵𝗺𝗶𝗹𝗮 𝗲𝗿𝗮𝗻𝗼 𝗱𝗶 𝗱𝗼𝗻𝗻𝗲; l’imminente sblocco dei licenziamenti non potrà che peggiorare questa situazione, dimostrando ancora una volta come il peso della pandemia e le sue conseguenze economiche ricadano soprattutto sulle nostre spalle. A tutto questo il governo risponde con la promozione di politiche autoimprenditoriali per le donne, lo sfruttamento mascherato da ‘formazione permanente’ e briciole di welfare familistico.

Il Family Act fa della maternità l’unico legittimo canale di accesso a sussidi miseri e razzisti, perché per beneficiarne sono necessari criteri di residenza che escludono la maggior parte delle persone migranti, mentre d’altra parte Draghi non si fa scrupoli a scendere a patti con quelli che lui stesso ha definito dittatori per ostacolare in ogni modo la libertà di movimento.

Quella prevista dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) è una vera e propria pianificazione patriarcale e familistica di uscita dalla crisi pandemica, che presenta il lavoro da casa come ultima frontiera della conciliazione tra lavoro e famiglia, ma per noi significa reperibilità continua, orari che si estendono all’infinito senza un’adeguata retribuzione, spese a nostro carico. Lavorare da casa quando bisogna farsi carico del lavoro domestico e di cura per noi vuol dire uno sfruttamento sempre più intenso.

I licenziamenti, le discriminazioni, i ricatti, le molestie sul lavoro sono una delle facce con cui la violenza patriarcale si manifesta nelle nostre vite.𝗦𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗮𝘂𝘁𝗼𝗻𝗼𝗺𝗶𝗮 𝗲𝗰𝗼𝗻𝗼𝗺𝗶𝗰𝗮 𝗲 𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝘁𝗮̀ 𝗱𝗶 𝗺𝗼𝘃𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗻𝗼𝗻 𝗲̀ 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗶𝗯𝗶𝗹𝗲 𝗻𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻 𝗽𝗲𝗿𝗰𝗼𝗿𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝗳𝘂𝗼𝗿𝗶𝘂𝘀𝗰𝗶𝘁𝗮 𝗱𝗮𝗹𝗹𝗮 𝘃𝗶𝗼𝗹𝗲𝗻𝘇𝗮, 𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗹𝗮 𝗴𝗮𝗿𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮 𝗱𝗶 𝘂𝗻 𝗿𝗲𝗱𝗱𝗶𝘁𝗼 𝗱𝗶 𝗮𝘂𝘁𝗼𝗱𝗲𝘁𝗲𝗿𝗺𝗶𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗲 𝘂𝗻 𝗽𝗲𝗿𝗺𝗲𝘀𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝘀𝗼𝗴𝗴𝗶𝗼𝗿𝗻𝗼 𝘀𝘃𝗶𝗻𝗰𝗼𝗹𝗮𝘁𝗼 𝗱𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗳𝗮𝗺𝗶𝗴𝗹𝗶𝗮 𝗲 𝗱𝗮𝗹 𝗹𝗮𝘃𝗼𝗿𝗼 qualsiasi governo non farà altro che riempirci di vuote parole di indignazione contro i femminicidi.

La violenza patriarcale si manifesta nei continui attacchi alla libertà di decidere sui nostri corpi e sulle nostre vite, al diritto all’aborto, in tutte quelle narrazioni che ci vorrebbero ancorare al ruolo di madri e mogli nella famiglia tradizionale e eterosessuale, come quella messa in scena dal primo ministro Draghi nella vergognosa passerella degli Stati Generali della Natalità. L’altra faccia di questa riaffermazione della maternità come destino naturale per lə donnə è l’opposizione reazionaria al DDL Zan. Anche se si tratta di una proposta insufficiente ad arginare la violenza omolesbobitransfobica e le sue cause sociali, per noi è del tutto inaccettabile che venga attaccata in nome dei diritti delle donne.

L’opposizione al 𝗗𝗗𝗟 𝗭𝗮𝗻 è l’insopportabile tentativo di difendere quella famiglia patriarcale dentro la quale si consuma quotidianamente la violenza maschile e di genere che schiaccia le soggettività dissidenti e le donne che non accettano di essere identificate con ruoli, generi e posizioni in cui non si riconoscono. Quest’ordine basato sulla violenza è lo stesso che noi donne, lesbiche, trans, froce, bisessuali, persone intersex e migranti sfidiamo ogni giorno con le nostre vite e la nostra libertà.

Proprio in questo contesto di attacco globale alle donne e alle persone LGBT*QIA+, il 26 marzo Erdogan ha decretato l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Pochi giorni dopo, la Polonia ha dichiarato di voler scrivere una Convenzione alternativa, basata sulla centralità della famiglia, e ha proposto di estenderla ad altri paesi dell’Est europeo. Sono due episodi di un unico contrattacco patriarcale contro donne e persone LGBT*QIA+ che ci riguardano direttamente e ci chiamano in causa. La Convenzione di Istanbul è il primo trattato internazionale giuridicamente vincolate per gli stati che l’hanno ratificato: per questo motivo è un documento scomodo.

I partiti ultra conservatori accusano la Convenzione di indebolire la famiglia tradizionale, di incrementare i divorzi e di favorire le rivendicazione delle comunità LGBT*QIA+. Una strumentalizzazione ideologica per nascondere un dato sempre più evidente, ossia che l’unità familiare spesso si basa sulla violenza e sulla sottomissione dellə donnə. La Convenzione richiede agli stati di intervenire contemporaneamente su protezione delle vittime, procedimento contro i colpevoli, prevenzione e politiche integrate. Al di là dei paesi che minacciano il proprio ritiro dalla Convenzione, è grave anche la situazione di quei paesi che, pur avendo ratificato il trattato, non lo stanno rendendo pienamente attuativo, come accade in Italia. Gli obiettivi di leggi e convenzioni promosse per prevenire sono spesso disattesi non solo per mancanza di fondi ma per una precisa volontà politica di non affrontare il problema alla radice.

La violenza istituzionale evidente nei tribunali che continuano ad avvalorare una teoria ascientifica come la 𝗣𝗔𝗦, consentono ai padri violenti e/o abusanti l’affidamento d* figlə a discapito delle donnə che coraggiosamente li hanno denunciati.𝗣𝗲𝗿 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗼 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗶𝗹 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗼 𝗹𝘂𝗴𝗹𝗶𝗼 – 𝗹𝗮 𝗱𝗮𝘁𝗮 𝘂𝗳𝗳𝗶𝗰𝗶𝗮𝗹𝗲 𝗱𝗶 𝘂𝘀𝗰𝗶𝘁𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗧𝘂𝗿𝗰𝗵𝗶𝗮 𝗱𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗖𝗼𝗻𝘃𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝗜𝘀𝘁𝗮𝗻𝗯𝘂𝗹 – 𝗡𝗼𝗻 𝗨𝗻𝗮 𝗱𝗶 𝗠𝗲𝗻𝗼 𝘀𝗶 𝘂𝗻𝗶𝗿𝗮̀ 𝗮𝗹𝗹𝗲 𝗽𝗿𝗼𝘁𝗲𝘀𝘁𝗲 𝗶𝗻 𝗧𝘂𝗿𝗰𝗵𝗶𝗮, 𝗻𝗲𝗹𝗹’𝗘𝘂𝗿𝗼𝗽𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗘𝘀𝘁 𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗼𝗹𝗼.

Con la stessa rabbia che ci ha animate nelle strade di 𝗩𝗲𝗿𝗼𝗻𝗮 𝗖𝗶𝘁𝘁𝗮̀ 𝗧𝗿𝗮𝗻𝘀𝗳𝗲𝗺𝗺𝗶𝗻𝗶𝘀𝘁𝗮, quando abbiamo contestato il World Congress of Family, scenderemo ancora una volta in piazza: saremo parte della mobilitazione transnazionale lanciata dai movimenti delle donne e delle persone LGBT*QIA+ in Turchia e della rete E.A.S.T. – Essential Autonomous Struggles Transnational, in connessione con le mobilitazioni femministe e transfemministe contro la violenza maschile e di Stato in America Latina, per dire chiaramente che non accetteremo di pagare l’uscita dalla crisi sociale pandemica al prezzo della nostra libertà. Insieme ai 𝗖𝗲𝗻𝘁𝗿𝗶 𝗳𝗲𝗺𝗺𝗶𝗻𝗶𝘀𝘁𝗶 𝗮𝗻𝘁𝗶𝘃𝗶𝗼𝗹𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗲 𝗶𝗻𝘀𝗶𝗲𝗺𝗲 𝗮𝗹𝗹𝗲 𝗿𝗲𝘁𝗶 𝗟𝗚𝗕𝗧*𝗤𝗜𝗔+ che da mesi portano avanti la lotta per reclamare #𝗺𝗼𝗹𝘁𝗼𝗽𝗶𝘂𝗱𝗶𝘇𝗮𝗻, insieme alle lavoratrici, lə sex workers e le persone migranti che stanno combattendo contro l’impoverimento della loro esistenza e il razzismo, vogliamo costruire una giornata di mobilitazione che tracci la strada delle nostre lotte e alleanze future. Il messaggio deve essere chiaro ancora una volta: non abbassiamo la testa, non restiamo in silenzio!

𝗦𝗘 𝗧𝗢𝗖𝗖𝗔𝗡𝗢 𝗨𝗡* 𝗧𝗢𝗖𝗖𝗔𝗡𝗢 𝗧𝗨𝗧𝗧*
𝗡𝗼𝗻 𝗨𝗻𝗮 𝗱𝗶 𝗠𝗲𝗻𝗼

#civogliamovive
#civogliamolibere

👇 A breve condivideremo tutte le iniziative in molte città!


🔻 Stay tuned 🔻Grazie a Vittorio Giannitelli per averci concesso di usare la sua foto, scattata a Verona durante Verona Città Transfemminista.

Politiche familiste nell’Italia della ricostruzione postpandemica

Condividiamo il contributo dall’Assemblea di Non una di meno Bologna. Qui la versione in inglese.


Durante la pandemia in Italia il carico di lavoro riproduttivo e di cura -non pagato o mal pagato- è aumentato enormemente ed è pesato principalmente sulle spalle delle donne. La chiusura delle scuole per quasi un anno ha significato per tantissime donne con figli dover far fronte a una conciliazione spesso impossibile tra lavoro domestico e lavoro salariato, mentre il governo ha risposto in maniera del tutto insufficiente con dei bonus babysitter, per altro molto bassi, che generano precarietà per un’altra donna. Già prima della pandemia in Italia una donna su due era disoccupata (48%), ma durante il 2020 le donne sono il 70% del numero complessivo di chi ha perso il lavoro.


Per le occupate non va tanto meglio: contratti precari, redditi bassi e sfruttamento per le donne sono la norma, soprattutto se migranti.
Il lavoro riproduttivo e di cura nei settori considerati essenziali, come i servizi sociosanitari e la sanificazione, è svolto quasi esclusivamente da donne, in gran parte migranti, in cambio di salari molto bassi, contratti con scarsissime tutele e ritmi di lavoro molto intensi. A questo proposito è molto significativa la sanatoria che è stata approvata l’anno scorso per la regolarizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici migranti impiegati nell’agricoltura, nel lavoro domestico e nell’assistenza domiciliare agli anziani. Questa sanatoria ha reso evidente l’essenzialità del lavoro migrante in questi settori e il legame tra sfruttamento e razzismo istituzionale. La possibilità di regolarizzazione, infatti, è stata fatta dipendere dai datori di lavoro, aumentando la condizione di ricatto a cui lavoratori e lavoratrici migranti sono sottoposti. Soprattutto, la sanatoria ha sancito la posizione che le donne migranti devono occupare all’interno della divisione sessuale del lavoro transnazionale, letteralmente identificandole come lavoratrici domestiche e della cura.

Per quanto riguarda la violenza maschile e di genere, i Centri Antiviolenza hanno denunciato un forte aumento delle violenze domestiche durante il lockdown e hanno segnalato le mancanze strutturali di fondi e personale per accompagnare le donne nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Le istituzioni non hanno dato nessuna risposta concreta, nonostante le ricadute della crisi pandemica sulle donne rinforzano il vincolo della dipendenza economica e rendono difficilissimo allontanare partner violenti.
Le politiche di ricostruzione che verranno messe in atto sono del tutto inadeguate per rispondere a questi problemi.


Il processo della scrittura del PNRR ha visto il passaggio tra due governi, dal governo Conte formato da una maggioranza di centro sinistra e Cinque Stelle al governo di super Mario Draghi costituito da una grande coalizione che tiene dentro la destra razzista della Lega di Salvini. Quando è iniziata la prima stesura del PNRR sono state fatte una serie di class action da parte di parlamentari donne, centri anti violenza e reti di femministe istituzionali con l’obiettivo di rendere la questione di genere centrale nella ricostruzione post pandemica. In un primo momento, durante il governo Conte, le questioni di genere erano affrontate, almeno a parole, come un problema strutturale, per il quale si sarebbe dovuto prestare un occhio di riguardo, ma da subito è stato evidente che il tema era ed è ancora trattato solo in modo retorico.

La visione di un problema strutturale è poi scomparsa anche a livello retorico nel piano presentato all’unione europea da Draghi, che tratta la problematica solo in termini neoliberali. Nel testo si ragiona infatti su come arginare il problema del profitto perso a causa della bassa presenza delle donne nel mercato del lavoro. I fondi stanziati per le donne nel PNRR presentato alla commissione UE sono pochissimi, passano principalmente dalle imprese e in minima parte dal welfare. Alle imprese arrivano finanziamenti tramite lo sviluppo dell’empowerment femminile e quindi dei benefit alle imprese gestite da donne – facendo intendere che il problema è delle donne stesse che non hanno sufficiente stima in loro stesse -, e il resto delle imprese possono accedere ai finanziamenti del recovery solo se rispondono a dei degli requisiti di bilanciamento dei generi non specificati sul testo. Per le lavoratrici dipendenti l’unica politica di conciliazione suggerita, oltre un piccolo investimento sui nidi, è lo smart working.

Le politiche di welfare che verranno adottate attraverso il Piano di Ricostruzione e Resilienza (PNRR), finanziato da Next Generation EU, e il piano di riforma Family Act sono prettamente familistiche. Nel particolare le misure più importanti sono: un aumento da 3 a 9 giorni della paternità, la riconversione di tutti i bonus legati ai figli in un assegno unico progressivo in base al reddito, un investimento di risorse negli asili nidi, che si calcola rimanere comunque insufficiente (ad oggi in Italia la disponibilità di posti negli asili nido copre solo il 25% del totale dei bambini che dovrebbe accedervi).

La famiglia è il principale destinatario degli aiuti economici che verranno dati attraverso le politiche di ricostruzione. Questo significa riaffermare la famiglia patriarcale tradizionale come nucleo fondante della società e come unico canale di accesso a forme di welfare e reddito indiretto erogate per far fronte alla crisi, e continuare a fare affidamento sul lavoro domestico gratuito delle donne.

Su questa linea si sono conclusi poche settimane fa Gli stati generali della natalità promossi dal Ministero delle pari opportunità e come ospiti d’onore il Papa e il Primo Ministro Draghi. Riprendendo le parole del sito: “Un figlio è un dono, ma è anche un bene comune, capitale umano, sociale e lavorativo”. La maternità è presentata non soltanto come l’unico destino legittimo per le donne, ma anche come un obbligo morale verso la società. Quelle che scelgono di non essere madri commettono il peccato di un ‘individualismo’ antisociale.
Non si tratta quindi di politiche che contrastano violenza di genere, fisica e economica, che si è intensificata con la crisi pandemica. Al contrario, queste misure riaffermano una società patriarcale e razzista, che colpiscono le possibilità di autodeterminazione delle donne, delle e dei migranti e delle persone lgbtqia+. I requisiti per accedere a questi aiuti economici, in particolare l’assegno unico per il figlio, sono razzisti perché escludono nei fatti la stragrande maggioranza delle persone migranti. L’unico modo in cui le donne migranti potranno usufruire di questi soldi sarà in modo indiretto, ossia lavorando come babysitter, lavoratrici domestiche o badanti in cambio di bassi salari per fare in modo che le donne italiane lavorino anche fuori casa. Queste politiche familiste colpiscono ed escludono le persone lgbtqia+. Rispetto alle loro condizioni e ai loro diritti in questi giorni in Italia stiamo assistendo a una forte reazione conservatrice.

Al momento è in discussione un disegno di legge (ddl Zan) contro la violenza omolesbobitransfobica e questo ha suscitato una forte reazione dai partiti di destra. Questa legge è molto limitata e in sostanza prevede un aumento delle pene contro la violenza omolesbobitransfobica, senza tuttavia programmare alcuno stanziamento di risorse per prevenirla e contrastarla efficacemente. Si tratta quindi di una proposta del tutto insufficiente, ma è evidente che molti, opponendosi a essa e nascondendosi dietro a un dibattito centrato sulla libertà di espressione, vogliono negare l’esistenza del fenomeno della violenza contro le persone lgbtqia+, e più in generale di mantenerle ai margini della società. A più riprese le donne e le soggettività lgbtqia+ sono scese in piazza, ci sono stati molti scioperi nella logistica e nei multiservizi, in molti casi le protagoniste sono state donne che hanno rivendicato la possibilità di una vita decente che potesse anche conciliare la loro scelta di maternità come nel caso delle compagne migranti delle Yoox. Anche quest’anno l’8 marzo è stata una forte giornata di mobilitazione nazionale tenendo presente la complessità della situazione legata al Covid. Continuiamo a sentire forte l’urgenza di farci sentire, di attaccare un sistema che ha svelato tutte le sue contraddizioni in pandemia ma che ora velocemente si sta ricostruendo nel tentativo di mantenere tutti i privilegi.

È per questo che scenderemo in piazza di nuovo il primo di luglio, in una cornice transnazionale, che connetta tutte le direttrici di violenza. L’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul ci riguarda direttamente, perché esprime in maniera lampante il tentativo di legittimare la violenza maschile contro le donne, e contemporaneamente di affermare la famiglia patriarcale e la repressione delle persone lgbt*qai+ come pilastri dell’ordine sociale. Questo tentativo sta avvenendo anche in Italia, dove la Convenzione è formalmente stata ratificata ma viene costantemente disattesa, e dove la violenza patriarcale si sta diffondendo sempre di più come pratica legittima di garanzia dell’ordine sociale. Non possiamo accettarlo e non lo accetteremo, per questo saremo anche noi in piazza il primo luglio: accanto a coloro che lottano in Turchia contro la violenza maschile e di Stato, contro l’autoritarismo e per la libertà sessuale, insieme a chi, in Italia e in ogni parte del mondo, non accetta più di abbassare la testa e restare in silenzio di fronte alla violenza patriarcale, al razzismo e allo sfruttamento!

Essenziale è la nostra vita, essenziale il nostro lavoro, essenziale la nostra lotta!


Non una di meno Bologna


*Foto di copertina di Margherita Caprilli

26 giugno-Nudm: Torniamo nelle Strade! Ci tolgono il tempo, riprendiamoci tutto!

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Fin dall’inizio dell’emergenza da Covid-19 abbiamo sottolineato come questa crisi non fosse uguale per tutt* e così purtroppo è stato. La pandemia ha esasperato le disuguaglianze, lo sfruttamento e le violenze determinate dal sistema capitalista, patriarcale e razzista nel quale viviamo e che, quotidianamente, colpiscono le nostre vite.

La violenza domestica è aumentata moltissimo durante il lockdown, mentre i centri antiviolenza hanno cercato di continuare a garantire supporto alle donne che vi si rivolgono, nonostante le difficoltà imposte dal distanziamento sociale e dalla mancanza strutturale di finanziamenti. Tantissime persone si sono ritrovate senza lavoro e senza reddito, tra cassa integrazione in ritardo di mesi, bonus di 600 euro assolutamente insufficienti, nessun tipo di sussidio per tutti i lavori in nero e non riconosciuti. Nei settori considerati come “essenziali”, dalla sanità ai servizi sociali, dalla sanificazione alla grande distribuzione, dalla logistica alle troppe fabbriche rimaste aperte, tantissime donne si sono trovate spesso senza dispositivi di protezione individuale, mettendo a rischio la propria salute e quella delle persone a loro vicine in cambio dei soliti salari bassissimi, accompagnate dalla retorica che le voleva “eroine” o “angeli” e pronte a sacrificarsi per il paese con il sorriso.

Razzismo e sessismo istituzionali si rendono evidenti nell’ultimo provvedimento del governo: una sanatoria che esaspera le condizioni di ricattabilità in cui versano le donne e le soggettività migranti, la cui unica possibilità di regolarizzarsi è vincolata all’arbitrio di chi da anni le sfrutta nei campi o in casa con contratti precari o in nero.

L’epidemia, il sovraccarico del sistema sanitario, la chiusura delle scuole a tempo indeterminato, l’estensione indefinita dei tempi di lavoro causata dal ricorso allo smart working hanno moltiplicato esponenzialmente il carico di lavoro produttivo e riproduttivo che pesa sulle nostre spalle. Come si può lavorare da casa mentre ci si prende cura di una persona malata o anziana e bisogna seguire figlie e figli nella didattica a distanza? Come si può tornare a lavoro con turni spalmati su orari impossibili, mentre ancora non si sa se e come riapriranno le scuole a settembre? Queste domande non hanno trovato risposte, ad eccezione del tanto richiamato bonus baby sitter, che argina solo temporaneamente il problema e produce ulteriore lavoro precario e sottopagato per altre donne.

Non possiamo più parlare di emergenza: le conseguenze di questa pandemia saranno pesanti e stabili e stiamo già sperimentando nelle nostre vite le conseguenze di questa crisi.
Nonostante il distanziamento sociale, sappiamo che non siamo sole, ma parte di una lotta che in tutto il mondo si oppone alla violenza maschile e di genere, al razzismo e allo sfruttamento in casa e sul lavoro. L’epidemia del Coronavirus non ci ha costrette al silenzio. Le donne e le soggettività dissidenti, le persone migranti e razzializzate hanno continuato e continuano a scioperare e a ribellarsi alla violenza con cui ci vorrebbero zittire, rimettere al nostro posto, ancorare ai ruoli che ci sono imposti e che noi invece rifiutiamo.

Ora è tempo di riprenderci le strade, la visibilità, la parola che hanno provato a toglierci. È tempo di urlare tutta la nostra rabbia per annunciare che non accettiamo che la ricostruzione e la convivenza con il Covid-19 avvengano al prezzo del nostro sfruttamento, dell’intensificazione della divisione sessuale del lavoro e del razzismo.Con attenzione e cura per la salute di tutte e tutti, il 26 giugno torniamo in piazza in tantissime città.

Di fronte alle conseguenze di questa crisi e alla nuova insopportabile normalità che annuncia, non rimarremo in silenzio!

¡Juntas somos más fuertes!

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#Iorestoacasama…Lotto tutti i giorni Lancio della Campagna di Non Una di Meno

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Da sabato 28 marzo alle ore 12 inizia la CAMPAGNA di NON UNA DI MENO #IORESTOACASAMA… LOTTO TUTTI I GIORNI!
DOVE? Segui le indicazioni sui nostri SOCIAL (Twitter, Instagram, Facebook) e continua a leggere qui per avere più info.

#iorestoacasama è una campagna per rompere la solitudine e l’isolamento, per raccogliere la voce di chi paga l’emergenza, per metterci in connessione e far circolare strumenti e informazioni per aiutarci e sostenerci, per lottare insieme.

Invia testimonianze della quarantena, racconta come è cambiata la tua vita, la tua affettività, la relazione
con il tuo corpo, il tuo rapporto con un tempo senza tempo (ritrovato o sospeso?). L’emergenza #covid_19 non è uguale per tutti, fa esplodere le contraddizioni, approfondisce le ingiustizie sociali e le
discriminazioni. Cominciamo a pensare adesso il mondo che verrà dopo.

📍COME CONTRIBUIRE
A partire da sabato 28 alle 12.00 pubblica testi, video, immagini,
accompagnate dall’HT #iorestoacasama…
I puntini di sospensione accompagnano la tua presa di parola, per uscire dall’isolamento emotivo, dalla solitudine, ci connettiamo con i fili di un hashtag, perché non sei sola, ovunque ti trovi.

-Invia un racconto, una poesia, un testo in prima o in terza persona (firmati o anonimi)
-Invia dei video-racconti sulla tua condizione e la tua esperienza
-Invia delle foto, grafiche, artwork (firmate o anonime)

📍DOVE?
🐦SU TWITTER
TWEET STORM E INQUINAMENTO sabato 28 ALLE 12

Dalle 12.00 alle 14.00 su Twitter chiunque abbia un account usi
l’hashtag ufficiale #iorestoacasa insieme al secondo hashtag lanciato da Non Una di Meno #iorestoacasama inserendo i contenuti e le grafiche della campagna per, contemporaneamente, inquinare l’HT ufficiali con le nostre parole, esperienze e rivendicazioni e salire in trending topic con il nostro #iorestoacasama.

📷SU INSTAGRAM
DA sabato 28 E NEI PROSSIMI GIORNI

Usa l’HT #iorestoacasama e invia come messaggio sulla pagina di Non una di meno, oppure tagga la pagina ig stessa, oppure taggala nella tua storia.
Usa anche l’HT ufficiale #iorestoacasa nelle tue storie per rendere
visibile la tua storia comparire nelle storie in evidenza nazionale.

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DA sabato 28 E NEI PROSSIMI GIORNI

Usa l’HT #iorestoacasama e invia come messaggio sulla pagina nazionale di Non una di meno, oppure tagga la pagina fb stessa, a tua scelta.

Questa campagna inizia sabato 28 ma non si conclude in un giorno. Continua anche nei giorni successivi sui vari social a tua scelta a condividere le tue esperienze e rompere l’isolamento per lottare insieme attraverso immagini, video, grafiche e post.

Segui gli account di Non una di meno per avere gli aggiornamenti sulla campagna #iorestoacasama

#iorestoacasama

una casa non ce l’ho

dormo per strada su un divano

e vivo di chi mi dà una mano

#iorestoacasama

la mia casa non è un rifugio

ci ho preso urla, spinte e bei ceffoni

di maschi spenti, aggressivi e manipolatori

#iorestoacasama

ormai sono senza lavoro e salario

con un affitto da pagare

e senza soldi per campare

#iorestoacasama

il telelavoro mi costringe per ore

seduta di fronte a uno schermo

con un bambino solo e sempre fermo

#iorestoacasama

c’è una paura che mi assale

ogni volta che devo capire vicino a chi stare

per non farlo stare male

#iorestoacasama

sono operaia, infermeria, cassiera

sono sempre a lavoro o sul divano

senza diritti e socialità

in una quarantena che non ha pietà

#iorestoacasama

dov’è finita la sanità?

in solitudine e isolamento

morire in casa senza un lamento

#iorestoacasama

ci resto con responsabilità

 ma voglio dare voce al mio pensiero

che risuoni per tutte

all’urlo di non una di meno