La vita oltre la pandemia

Numero 11

Qualcosa si muove tra le macerie della pandemia. Siamo separate, ma oggi più di prima congiunte dal desiderio di cambiare tutto. Un evento devastante come il Covid-19 richiede risposte potenti e un’ambizione smisurata. L’epidemia ha messo a nudo che la riproduzione della vita è incompatibile con il progetto neoliberale di estendere la logica del mercato a ogni ambito dell’esistenza. Ripartiamo dai saperi e dalle pratiche femministe e transfemministe che proprio della riproduzione sociale hanno fatto il terreno di conflitto prioritario. Ripartiamo da un tessuto collettivo e situato, mutevole nelle alleanze trasversali in cui prende sempre nuovo corpo. Perché se il presente è catastrofico, il futuro non è ancora scritto e le nostre lotte dovranno determinare le forme della convivenza dopo la pandemia.

Per trovare risposte potenti a eventi devastanti torniamo all’«arcano della riproduzione», ossia a quell’insieme di attività che rigenerano la vita umana in una determinata formazione storico-sociale: oltre la riproduzione delle generazioni, le cure psico-fisiche e sanitarie di tutt*, adult*, bambin* e anzian*, la gestione degli spazi e dei beni domestici, l’educazione e la formazione, l’accesso alla cultura, ai servizi, lo svago, le relazioni sociali. Sono stati i movimenti femministi a svelare la centralità del lavoro riproduttivo: condizione di esistenza della società tutta, della sua prosecuzione nel tempo.

A partire dagli anni Settanta il movimento Salario al lavoro domestico ha documentato come la stessa transizione al capitalismo, agli albori della modernità, sia stata possibile solo attraverso l’occultamento, la naturalizzazione e dunque la svalutazione del lavoro di riproduzione. Senza le attività di cura e domestiche che assicuravano la sussistenza dell’operaio, non si sarebbe data forza lavoro. Senza forza lavoro, non si sarebbero dati né fabbrica né profitto. Eppure, la riproduzione è stata misconosciuta come lavoro, ascritta all’ambito delle risorse naturali disponibili all’appropriazione. Così si è giustificata, e ancora si giustifica, l’estorsione di un’immane fetta di ricchezza. È questo il filo rosso che lega il lavoro gratuito delle donne all’interno delle case e l’espropriazione delle risorse del pianeta.

E, come sottolineato dalle femministe afro-americane e antirazziste, lavoro domestico e riproduttivo ed espropriazione delle risorse sono sempre stati attraversati dalla linea del colore. Le donne migranti e razzializzate continuano a farsi carico di estenuanti attività di cura dentro e fuori l’ambito della famiglia; le popolazioni e i territori indigeni sono, ieri come oggi, prese d’assalto dalla violenza predatoria del capitalismo. Questa, l’eredità della storia schiavista e coloniale.

Per trovare risposte potenti a eventi devastanti guardiamo alla trasformazione della riproduzione nelle società neoliberali prima e dopo la pandemia. Il modello neoliberale si fonda sull’esaltazione del mercato e della competitività sociale, sulla responsabilità individuale nell’adattamento al rischio, sulla privatizzazione e, insieme, sull’erosione di quelle istituzioni e politiche pubbliche attraverso cui, nel XX secolo, si è minimamente redistribuito a livello sociale anche il lavoro riproduttivo e di cura. Negli ultimi cinquant’anni, inoltre, lo smantellamento del welfare ha corrisposto a una trasformazione radicale del lavoro, definita anche “femminilizzazione del lavoro”: intermittenza e coazione a una piena disponibilità del tempo, sfruttamento e messa a valore delle capacità relazionali, linguistiche, di cura. Se, da un lato la riproduzione è diventata immediatamente produttiva, dall’altro, le catene del valore si alimentano con lo sfruttamento delle donne, delle soggettività razzializzate e non conformi, con la precarizzazione della vita di intere generazioni.

Con l’arrivo del Covid-19 le strutture della riproduzione sociale e della cura, prime fra tutte quelle sanitarie, hanno mostrato tutta la loro fragilità. In Italia, solo l’ultimo decennio di politiche neoliberali e di austerità ha cancellato 70.000 posti letto, 359 reparti e interi ospedali. L’esito più brutale, fallimentare, di queste misure è sotto gli occhi di tutt*. La pandemia ha rivelato la centralità della riproduzione sociale, ma anche la sua crisi profonda. Il virus, dice qualcuno, colpisce senza distinzione di classe. Ma le discriminazioni classiste, razziste, anagrafiche, abiliste, si manifestano nelle possibilità di accesso alle cure. Ci sono vite che hanno diritto all’assistenza e alla cura e vite che non lo hanno. Non “nude vite”, ma vite assolutamente determinate, stigmatizzate, dal punto di vista economico, sociale, della sessualità e del genere, della provenienza geografica, delle abilità/disabilità, dell’età. Ci sono corpi che subiscono la quarantena, e altri che la rendono possibile perché non hanno mai smesso di lavorare, dentro e fuori casa: infermier*, medic*, lavoratrici e lavoratori delle imprese di pulizie, lavoratrici domestiche, della cura, insegnanti, madri che accudiscono bambin*, figlie che assistono genitori anziani.

Per trovare risposte potenti a eventi devastanti ripartiamo dalla casa, principale luogo di sfruttamento delle donne, ma anche primo spazio dei conflitti femministi. Da settimane siamo a casa, ma non tutt* nello stesso modo. C’è chi una casa non ce l’ha proprio. Le mura domestiche restituiscono fotografie di disuguaglianze. Per alcune la casa non è un rifugio dalla pandemia, ma luogo di oppressione, di minaccia, di violenza, fino al femminicidio. Per molte lavoratrici domestiche e della cura, le case (altrui) rimangono il luogo di un lavoro sfruttato e non riconosciuto. Lo hanno confermato ancora una volta le stesse istituzioni, con il decreto “Cura Italia”, che ha escluso le lavoratrici e i lavoratori della cura da garanzie di reddito e da misure di protezione per la loro salute. L’80% delle lavoratrici della cura in Italia è straniera – oltre un milione in numeri assoluti. Perdere il lavoro per loro significa anche perdere un posto dove vivere, e rimanere ostaggio di un dispositivo di sfruttamento che vincola al permesso di soggiorno la possibilità di accettare o rifiutare condizioni di lavoro.

Ripartiamo dalle case come campo di battaglia, come luogo in cui tessere nuove (ma anche vecchie) alleanze, coalizioni sediziose e intersezionali. Tempo della cura, è insieme tempo di conflitto e di immaginazione. Giochiamo a nostro favore le difficoltà che stiamo vivendo: le case, che adesso sono anche ufficio, aule scolastiche e universitarie, zona di indistinzione tra produzione e riproduzione, dovranno esplodere.

Per alimentare risposte potenti a eventi devastanti guardiamo alle reti dell’educazione e del sapere. Per anni il neoliberalismo ha affamato scuola e università. Dall’inizio della pandemia, la didattica si è trasferita on-line, fornendo, da un lato, al “capitalismo delle piattaforme” nuove occasioni per appropriarsi del sapere, che sempre è prodotto in modo cooperativo, dall’altro, accentuando le differenze sociali e le discriminazioni abiliste. Le dichiarazioni dei decisori, tecnici o politici che siano, irridono alla scuola come relazione e cura, esaltando il lavoro agile e smart. Ma come stanno denunciando le/gli insegnanti questo è fonte di un nuovo sfruttamento, nonché di una profonda discriminazione verso chi porta sulle proprie spalle il carico della cura di bambin*, anzian*, disabili.

Bambin*, adolescenti, ragazz* stanno pagando un prezzo altissimo alla pandemia. La trasmissione del sapere non può essere separata dalla prossimità con coetanei e docenti, che svolge una funzione fondamentale nella costruzione di relazioni autonome, svincolate dalla famiglia. Il suo venire meno avrà conseguenze pesanti, oltre che sul piano affettivo e sociale, anche sul piano politico: scuole e università sono luoghi dove le generazioni scoprono e alimentano le proprie passioni erotiche e politiche.  

Proprio attorno alla scuola si sono mobilitate da subito tante reti di solidarietà territoriali, da quelle che si sono adoperate per colmare il digital divide, a quelle che hanno sopperito ai bisogni primari. Le pratiche di mutualismo non sostituiscono gli interventi istituzionali, ma segnano la via per la costruzione di un nuovo spazio comune, oltre lo Stato, ma anche oltre la famiglia, che non può più essere assunta come unità di misura attorno a cui distribuire reddito e risorse.

Per alimentare risposte potenti a eventi devastanti mettiamo la libertà di movimento al centro della riflessione sulla riproduzione sociale. Fin dai primi giorni dell’emergenza è stato chiaro come la catena di somministrazione del cibo dipenda dalle lavoratrici e dai lavoratori migranti, impiegati nell’agricoltura, nella logistica, nella distribuzione, nei servizi. In molt* si sono rifiutati di lavorare in assenza delle condizioni di sicurezza, mentre altr* sono stati bloccati dalle limitazioni alla circolazione tra gli Stati imposte per contenere la pandemia. Quello stesso sistema dei confini, che quotidianamente produce morte tra le donne e gli uomini migranti, ci mette di fronte al nesso inscindibile che lega la libertà di movimento alle condizioni di riproduzione della vita.

Nei CPR, da Ponte Galeria a Gradisca d’Isonzo, nei CAS creati per il contenimento dei richiedenti asilo, nelle baraccopoli e nelle occupazioni informali, che sopperiscono all’assenza di accoglienza e casa, le restrizioni alla circolazione imposte nell’emergenza sociale e politica Covid-19, non sono misure che bloccano la pandemia, ma moltiplicano gli ostacoli alla libertà di salvarsi. È così per il vergognoso decreto che dichiara l’Italia “porto non sicuro”, come per gli accordi che bloccano i migranti in Libia o sulle isole greche. Oltre a numerose fabbriche non-essenziali, sono stati proprio i CPR, come anche le carceri, a essere rimasti in piena attività, mostrando il loro ruolo di istituzioni volte a riprodurre corpi destinati allo sfruttamento.

Gli eccidi in atto nel Mediterraneo, a cui la pandemia ha fornito una nuova scusa, ci mostrano che le politiche contro la libertà di movimento sono politiche di morte. Per alimentare risposte potenti è necessario mettere la libertà di movimento al centro delle nostre battaglie e costruire attorno a questa rivendicazione un nuovo universalismo di accesso ai diritti, al welfare, al reddito.

 Per alimentare risposte potenti a eventi devastanti, guardiamo alle dimensioni socio-ecologiche della riproduzione. Il nesso tra riproduzione sociale e quella ecologica non è nuovo. Oltre al lavoro delle donne, il capitalismo dell’era industriale ha appropriato la biosfera come fonte di materia ed energia. Entrambe, attività riproduttive e biosfera, sono state ridotte a risorse gratuite per alimentare un modo di produzione guidato dall’imperativo del profitto e della crescita. Oggi, al collasso delle strutture della cura, corrisponde quello degli ecosistemi. La pandemia e i suoi effetti devastanti sono frutto di questa doppia dinamica. La crescita fuori controllo di deforestazioni, coltivazioni intensive, allevamenti industriali di animali e insediamenti urbani hanno aumentato la frequenza dei salti di specie dei virus. Dopo aver trovato un nuovo ospite, il Sars-Covid-2 si è propagato attraverso i circuiti dell’economia globalizzata. Il virus, dicono alcune ricerche scientifiche, viaggia nelle particelle di smog e si trasmette con più facilità nelle aree dove l’aria è fortemente inquinata, a grande densità abitativa, oltre che produttiva, da Wuhan alla Pianura Padana. In Italia l’infezione si è estesa nei luoghi di lavoro chiusi troppo tardi e riaperti troppo in fretta. La curva del contagio è cresciuta in un sistema sanitario indebolito dai tagli e dalle privatizzazioni. La pandemia ha confermato su scala inedita, ciò che alcune lotte femministe e conflitti socio-ecologici sostengono da tempo: non possiamo ignorare, o declinare come secondario, il nesso tra riproduzione sociale e quella ecologica e le sue implicazioni politiche. La scommessa è estendere la cura dai corpi singoli a ciò che permette loro di persistere: la relazione, gli ecosistemi, la biosfera, il pianeta intero. Questo è terreno di incontro, e convergenza possibile, tra movimenti femministi e transfemministi ed ecologisti.

 Per alimentare risposte potenti a eventi devastanti è necessaria una redistribuzione radicale della ricchezza. Mentre in Europa e a livello globale si consuma lo scontro sugli strumenti da mettere in campo per gestire una crisi economica, oltre che sanitaria, di dimensioni immani, quel che inizia a emergere è che sarà inevitabile, per Stati e istituzioni economico-finanziarie, rilanciare la spesa sociale. Il punto è come. Quanti e a chi verranno destinati i fondi pubblici? Questo rilascio si darà sempre attraverso il meccanismo del debito?

Non ci accontentiamo di misure di emergenza. In tant* in questo momento stanno rilanciando la rivendicazione di un reddito di base, da quello di cura a quello di quarantena. In modo affine, siamo convinte che sia necessaria una misura strutturale e redistributiva. Da anni infatti rivendichiamo un reddito di autodeterminazione: universale e incondizionato, rivolto alle singole persone e non al nucleo familiare, slegato da prestazioni di lavoro, dalla cittadinanza e dalle condizioni di soggiorno, che sia garanzia di autonomia economica, strumento di fuoriuscita dalla violenza di genere, dallo sfruttamento lavorativo ed ecosistemico. Rivendichiamo reddito di autodeterminazione insieme al salario minimo europeo, per evitare che il primo divenga uno strumento in mano a imprese e datori per comprimere gli stipendi e al fine di contrastare le paghe da fame, le disparità salariali tra donne e uomini, nativ* e migranti.

Vogliamo che le istituzioni del welfare vengano strutturalmente rifinanziate e che siano istituzioni universali, gratuite e solidali, a cui tutt* possano accedere: sanità pubblica e laica, moltiplicazione dei presidi territoriali, assunzioni a tempo indeterminato e stabilizzazioni del personale; investimenti in scuola, formazione e ricerca; servizi per l’infanzia; a sostegno e per la cura delle persone più vulnerabili; garanzia del diritto all’abitare; previdenza sociale.

Allora le lotte per il welfare, oltre a essere lotte per la redistribuzione della ricchezza, emergono in tutta la loro importanza come lotte per la democrazia, per la riappropriazione democratica delle infrastrutture sociali. La difesa del pubblico è immediatamente immaginazione di istituzioni comuni e di libertà oltre lo Stato.

 Per alimentare risposte potenti è necessario costruire in comune nuove alleanze della cura. «Ridurre la curva e aumentare la cura», è lo slogan del collettivo di artiste e attiviste Pirate Care, che restituisce, a nostro avviso, il senso profondo della scommessa femminista e transfemminista: contenere il contagio non basta, occorre invece lottare per riorganizzare le infrastrutture della cura, sottrarne il controllo al mercato. Solo così i corpi oggi più esposti agli effetti (anche economici e sociali) del Covid-19 troveranno quei margini di sicurezza che al momento sono privilegio di pochi.

Le reti di mutualismo e solidarietà create in molti centri urbani d’Italia vanno in questa direzione: adottano forme di cura dal basso che spostano l’attenzione oltre gli individui. A Roma, come in altre città, i centri anti-violenza femministi, da Lucha y Siesta a BeFree, a D.i.Re alla Casa Internazionale delle Donne, continuano a operare, a distanza, a sostegno di donne vittime di violenza, costrette a casa con uomini che abusano e minacciano. Così la rete di solidarietà tra e verso le sex workers che è riuscita a superare barriere di stigmatizzazione e criminalizzazione, mettendosi al fianco di chi, in questa emergenza, è più esposta sia al contagio che allo sfruttamento. Così anche gli sportelli e le organizzazioni sindacali che tutelano i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori precar*, migranti, informali, senza tutela, disoccupat*, fornendo assistenza legale o per l’accesso agli ammortizzatori sociali; o, ancora, gli spazi e le reti sociali e territoriali che stanno organizzando le spese e distribuzioni solidali.

La cura diventa così terreno di sperimentazione. Oltre gli spazi chiusi degli ospedali, di certo essenziali nella crisi sanitaria, oltre il privato della famiglia, la cura si fa diffusa e promiscua, nutrita da reti di intimità che non coincidono con le parentele biologiche. Occorre ripensare forme e istituzioni della cura oltre il modello familistico ed eteronormato, individualista e patriarcale. Occorre ripensare le relazioni e la vita in comune, abbattendo una volta per tutte la violenza del modello neoliberale, machista e predatorio nei confronti della vita.

Le lotte che si prefigurano richiedono forza, determinazione, creatività. Abbiamo aperto una pista con la risignificazione dello strumento dello sciopero. Un processo che è ancora in atto. In questa direzione dobbiamo proseguire. E le lavoratrici e i lavoratori che hanno scioperato un mese fa, in piena emergenza Covid-19, ce lo hanno già dimostrato. Ce lo hanno dimostrato le sollevazioni nelle carceri.

Ora più che mai è il momento di tornare a battersi per la redistribuzione della ricchezza che da secoli ci viene estorta, rubata. Come le compagne argentine, prima della quarantena, è il momento di gridare con tutta la forza che ci anima che “noi siamo in credito e non in debito!” e “ci vogliamo vive, libere e sdebitate!”.

Non Una di Meno Roma

Qui la traduzione del testo in inglese su Interface Journal  “Life Beyond the Pandemic” a cura di Emma Gainsforth e Miriam Tola

1° maggio Femminista Transnazionale: Lo sciopero vive nelle lotte

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In questa data storica, che unisce le lavoratrici e i lavoratori di tutto il mondo nella lotta per i loro diritti, convochiamo – a partire dai nostri femminismi che sono una forza transnazionale e una potente memoria delle lotte – un

1° maggio Femminista Transnazionale

Continuiamo ad alzare le nostre voci con forza di fronte all’urgenza di denunciare insieme la crisi della riproduzione della vita di fronte a cui ci pone la pandemia, che precarizza e intensifica ulteriormente il lavoro produttivo e riproduttivo che facciamo noi donne, lesbiche, trans, queer e non-binarie. Per questo dobbiamo organizzarci e lottare insieme.

La pandemia globale generata dal COVID-19 ha reso ancora più visibile non solo la crisi capitalistica e patriarcale, ma anche l’urgenza di trasformare complessivamente la società e combattere le sue disuguaglianze. Milioni di lavoratrici e lavoratori durante questa pandemia continuano a lavorare nei magazzini logistici senza protezione e con salari bassi. Le condizioni di lavoro delle e dei migranti diventano ancora più precarie: tanto le misure che di fatto mantengono irregolari le e i migranti, quanto quelle che li/le regolarizzano in maniera selettiva, sono ugualmente funzionali a poterli/e mettere a lavoro in condizioni di maggiore sfruttamento. Milioni di operatrici sanitarie e di operaie lavorano senza sosta, con salari bassi e in condizioni inadeguate, mettendo a rischio la loro vita ogni giorno. Migliaia di lavoratrici domestiche vengono licenziate senza ricevere alcun sussidio. Milioni di donne sono sovraccaricate di lavoro domestico e milioni di lavoratrici informali, delle economie popolari e precarie si ritrovano senza lavoro. La crisi pandemica mostra chiaramente che i lavori necessari per la riproduzione sociale sono i più sfruttati e precari, svolti il più delle volte da donne e migranti.

Allo stesso tempo, l’attuale isolamento dimostra che migliaia di donne, lesbiche, e trans non possono rimanere a casa e proteggere la loro salute perché devono continuare a lavorare. Coloro che possono rimanere a casa, si vedono obbligate dal sistema patriarcale ad assistere e prendersi cura degli anziani e dei bambini, aumentando ancora di più il loro lavoro domestico per il quale non c’è mai stato né un limite di ore né una retribuzione. Per molte, le case non sono luoghi sicuri perché significa essere esposte alla violenza dei propri partner ogni giorno. I femminicidi e la violenza contro le donne e le persone LGBTQI+ si sono intensificati con questa crisi, la cui gestione securitaria omette questa realtà. La crisi invisibilizza anche il ruolo nella società delle donne diversamente abili, la cui cura e vita quotidiana sono soggette a ritmi molto particolari.

Non vogliamo che il futuro assomigli a questo presente e ci rifiutiamo di ritornare alla normalità neoliberale, la cui insostenibilità si rivela in modo indiscutibile in questa crisi. Lottiamo per porre fine all’estrattivismo, agli allevamenti intensivi e alla produzione industriale di alimenti su larga scala, che subordinano tutte le specie viventi e la terra ai profitti del capitale.

Oggi stiamo combattendo per sopravvivere nella pandemia, ma ci stiamo anche organizzando per affrontare le conseguenze a lungo termine che questa avrà sulle condizioni economiche e di vita di milioni di persone in tutto il mondo.

Non vogliamo uscire da questa “emergenza” ancora più indebitate e precarie! Chiediamo che la ricchezza sia utilizzata per garantire che nessuna persona sia lasciata senza entrate economiche o costretta a indebitarsi per sopravvivere. La ricchezza dovrà servire per sostenere la vita e non più per essere appropriata da una minoranza privilegiata. Chiediamo che l’accesso al sistema sanitario sia garantito gratuitamente e che i diritti alla salute mentale, sessuale e (non) riproduttiva siano riconosciuti come diritti essenziali, perché il confinamento obbligatorio non può essere una scusa per impedirci di decidere sul nostro corpo e garantire la nostra autonomia.

Nei quartieri popolari si stanno organizzando ruidazos (azioni rumorose) contro i femminicidi e reti di autodifesa contro la violenza maschile. Nelle comunità, le donne indigene, che hanno sempre lottato contro la devastazione ambientale, si trovano ad affrontare uno Stato che approfitta dell’isolamento per realizzare progetti estrattivi. In ogni carcere, le e i detenute/i denunciano le condizioni disumane di detenzione e la mancanza di protezione. Ovunque, le e i migranti si ribellano contro il sovraffollamento dei centri di detenzione e rivendicano i loro documenti, senza i quali la loro vita, ancor più con questa pandemia, è soggetta a condizioni di maggiore sfruttamento e violenza. Nei magazzini e nelle fabbriche si moltiplicano gli scioperi che richiedono che si continuino solo le attività essenziali e in condizioni dignitose.

Lo sciopero femminista è stato negli ultimi anni lo strumento che ha unito le nostre lotte a livello globale e che ci ha permesso di rifiutare la violenza patriarcale nella sua dimensione strutturale: nelle case, nelle strade, nei luoghi di lavoro, attraverso le frontiere. Nello sciopero dei passati 8 e 9 marzo abbiamo invaso le strade con la nostra potenza femminista, siamo state milioni in tutto il mondo. Durante la pandemia e nei prossimi mesi il processo di insubordinazione alimentato dallo sciopero femminista deve convertire il nostro lavoro riproduttivo in un campo di lotta per contestare la divisione sessuale e razzista del lavoro e per esigere la socializzazione del lavoro di cura. Vogliamo che sia data totale attenzione alla salute e che i servizi essenziali siano rafforzati.

Pretendiamo che tutti i lavori non indispensabili a sostenere la vita siano sospesi: i lavori non necessari devono essere interrotti! Vogliamo la fine della subordinazione, dello sfruttamento, della precarizzazione. Pretendiamo anche che si forniscano le protezioni necessarie contro il virus per i lavori essenziali.

Vogliamo sovvertire tutto per mettere fine alla violenza patriarcale e razzista della società neoliberale, per poter abortire in modo sicuro, libero e gratuito, per non indebitarci ancora di più, per poter disporre delle nostre libertà. Lo sciopero femminista globale ci ha insegnato che quando siamo unite siamo forti e ora più che mai dobbiamo alzare le nostre voci nella stessa direzione per evitare la frammentazione che la pandemia sembra imporci.

Vogliamo un’uscita femminista transnazionale dalla crisi per non tornare più a una normalità fatta di disuguaglianze e violenze. Nella giornata internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori grideremo tutta la nostra rabbia contro la violenza di una società che ci sfrutta, opprime e uccide.

Il Primo Maggio diciamo più che mai che le nostre vite non sono al servizio dei loro profitti.

Nella giornata internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori affermiamo ancora una volta che la società può essere organizzata su nuove basi, che è possibile una vita senza violenza patriarcale e razzista e libera dallo sfruttamento.

Feministas Transfronterizas

Evento fb transnazionale

Evento fb Nudm

Video di lancio globale

MANIFESTO FEMMINISTA TRANSNAZIONALE per uscire insieme dalla pandemia e cambiare il sistema (testi multilanguage)

copertina fb

Le ultime settimane di quarantena non fermano l’articolazione delle lotte femministe e transfemministe globali: quattro anni di scioperi femministi e transfemministi hanno già mostrato che la nostra mobilitazione attraversa confini e ci continua ad unire in un’unica grande marea.

Non ci arrendiamo all’isolamento imposto dalla pandemia e dalla crisi e alle difficoltà materiali quotidiane che viviamo come donne e persone LGBQTIA*. Con questo manifesto continuiamo ad organizzarci, a generare iniziativa, presa di parola, forme di mobilitazione e azioni collettive femministe e trans-femministe, non solo per affrontare questa pandemia ma anche e soprattutto per non tornare più a una normalità fatta di oppressione, diseguaglianza e sfruttamento.

Per uscire dalla crisi insieme sovvertendo l’esistente e riscrivendo il futuro che vogliamo. Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema. Pubblichiamo di seguito il manifesto femminista transnazionale scritto e condiviso da Transfrorentizas, uno spazio transnazionale attraversato da collettive, movimenti, organizzazioni e reti femministe, transfemministe, antipatriarcali e antirazziste di cui, come NON UNA DI MENO, facciamo parte.

Uno spazio in movimento, dinamico, aperto e in espansione attraverso il quale cerchiamo di articolare la nostra pluralità di discorsi e pratiche per intrecciare le nostre lotte e le lotte di tutte quelle donne e persone LGBTQIA* che ogni giorno si ribellano alla violenza patriarcale. Uno spazio di lotta contro patriarcato, razzismo e sfruttamento e ogni forma di violenza imposta dall’organizzazione neoliberale della società per affermare un programma e un processo di autodeterminazione collettivo globale che costruisce alternativa alla crisi.

Arriba las y les que luchan!
#FeministasTransfronterizas

Grazie ad Athena per le illustrazioni

Qui le versioni scaricabili in pdf del Manifesto in multilanguage (in aggiornamento)

Non una di meno: Lottiamo tutti i giorni, come e più di prima!

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Come Non Una Di Meno sentiamo l’urgenza di una presa di posizione femminista e transfemminista sull’attuale crisi globale, non solo per analizzare l’emergenza nella quale ci troviamo, ma anche come punto di partenza collettivo: le trame che intessiamo oggi avranno effetti sulla riorganizzazione sociale che cominciamo a intravedere e sul futuro che vogliamo.

Abbiamo annullato lo sciopero dell’8 e 9 marzo perché non potevamo ignorare l’emergenza da Covid-19 e la responsabilità collettiva di evitare la diffusione del contagio. Da subito abbiamo riconosciuto che la pandemia esaspera una «normalità» fatta di violenza, privilegi, emarginazione, oppressione e sfruttamento, e questo giudizio è confermato dalla situazione prodotta dopo il primo mese di «politiche di contenimento».

Restiamo a casa, “ma” la crisi sanitaria attuale svela spietatamente le contraddizioni del sistema, la fragilità delle democrazie e delle politiche pubbliche, le diseguaglianze strutturali, le tensioni che attraversano un sistema produttivo basato sullo sfruttamento delle persone e dell’ecosistema, aprendo le porte a una crisi economica e alimentare senza precedenti.

La violenza contro le donne e le persone LGTBQIA+ cresce nelle case in cui dobbiamo restare per mantenere la distanza sociale. L’oppressione di chi non ha una casa in cui restare, di chi è rinchiusa e rinchius* in un centro di detenzione o di «accoglienza», di chi sta in carcere o preme per attraversare i confini, è diventata ancora più insopportabile. Così come diventa impossibile affrontare autonomamente una gravidanza indesiderata, quando si condivide forzatamente lo spazio domestico con un nucleo familiare al quale avremmo voluto nascondere la nostra scelta.

Lo sfruttamento è diventato più intenso per chi è costrett* ad andare a lavorare in modo da garantire i profitti e per chi svolge tutti quei lavori essenziali per contenere la pandemia. In questa situazione senza precedenti si sono moltiplicati gli scioperi, sia per reclamare la possibilità di restare a casa e non correre rischi di contagio, sia per lavorare in condizioni di sicurezza contro il contagio.

Abbiamo sentito risuonare in molte lotte la parola d’ordine che in tutto il mondo il movimento femminista e transfemminista globale ha urlato in questi quattro anni: «se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo»! La pandemia che non ci permette oggi di scendere in piazza e sentire la forza di una marea di corpi in movimento, ci obbliga a indicare quelli che sono già e saranno, dopo la fine dell’emergenza, i terreni sui quali la nostra lotta deve continuare e crescere: perché non abbiamo nessuna intenzione di tornare alla «normalità» che ci opprime e perché sappiamo che la pandemia imporrà grandi trasformazioni.

Abbiamo combattuto per decenni contro l’identificazione delle donne con lo spazio e le mansioni domestiche, per poter «uscire dalle case». Oggi assistiamo a un rientro forzato di moltissime donne e soggettività LGTBQI+ in una casa che rischia di essere idealizzata come spazio «protetto» esente da sfruttamento, ma per molte e molt* di noi stare a casa non è sicuro. Mentre ogni spazio pubblico è sottoposto a stretti controlli di sicurezza, la quarantena e l’isolamento non fanno che esasperare le situazioni di violenza intra-familiare, che in questi giorni sono cresciute esponenzialmente e in alcuni casi sono già sfociate in femminicidi (otto, solo nel mese di marzo).

Gli effetti dei tagli ai centri antiviolenza diventano ancora più evidenti e pesanti, mentre essere costrette a stare in casa rende quasi impossibile anche solo contattare i numeri e le strutture di riferimento. Ma anche la casa non è più la stessa. Il cosiddetto smart-working, presentato come la soluzione più semplice di fronte al blocco degli spostamenti, si è trasformato in una chiamata alla flessibilità e alla disponibilità costante al lavoro.

Insegnanti, educatrici ed educator*, prima di altre categorie, hanno dovuto confrontarsi con l’invasione del lavoro negli spazi e negli orari della vita personale. Allo stesso tempo, la didattica online acuisce le differenze sociali tra chi ha i mezzi e il tempo da mettere a disposizione delle figlie e de* figl* per aiutarli a seguire le lezioni online e chi invece non ha le stesse possibilità. D’altra parte, alcune donne non possono stare a casa e anzi sta aumentando moltissimo il carico lavorativo per figure professionali fortemente femminilizzate come infermiere, cassiere, donne delle pulizie, operatrici socio-sanitarie, il cui lavoro è essenziale per la gestione della pandemia. Così, mentre la cura e i servizi alla persona rivelano tutta la loro fondamentale importanza, il decreto approvato dal governo italiano, significativamente e paradossalmente chiamato «Cura Italia», continua a produrre l’invisibilità proprio delle categorie che si occupano di cura e servizi alla persona.

Il decreto esclude del tutto milioni di lavoratrici domestiche e della cura già prive di tutele che, insieme al posto di lavoro, se sono migranti, rischiano anche di perdere il permesso di soggiorno. Allo stesso modo sono escluse moltissime donne che lavorano in nero nei servizi alla persona, nel turismo, nel lavoro stagionale, e moltissime lavoratrici del terzo settore, a cui sono state progressivamente esternalizzate le attività di cura secondo criteri d’impresa che aumentano a dismisura il carico di lavoro a scapito di quelle persone, come gli anziani, che più avrebbero bisogno di essere protette dal contagio. La pandemia rende quanto mai evidente la centralità politica della riproduzione sociale e l’urgenza di continuare a farne un terreno di lotta.

Tutte le contraddizioni dell’organizzazione patriarcale e neoliberale della società stanno esplodendo. Il lavoro precario e mal pagato delle donne impiegate nella sanità e nei servizi alla persona, ma anche la difficoltà del sistema sanitario nazionale di gestire la crisi pandemica, sono l’effetto di decenni di tagli. Il servizio sanitario è stato spogliato di ogni contenuto universalistico, privatizzato in favore dei profitti e privato dei presidi territoriali, al punto che ora rischia di arrivare al collasso. Mentre anche i tentativi di coordinamento al livello dell’Unione Europea rivelano la continuità delle logiche dell’austerità persino di fronte all’urgenza di un intervento fuori dai vincoli di bilancio, il peso materiale e psicologico del contagio viene scaricato sulle singole e i singoli. Noi consideriamo la salute una questione politica e per questo pretendiamo che sia tutelata come bene collettivo, che non può essere perciò limitato al problema di evitare l’estensione del contagio.

Lo Stato tenta di sopperire a queste carenze aumentando il carico lavorativo di chi è già allo stremo e ricorrendo a metafore belliche per garantire l’unità nazionale, trasformando i malati in perdite civili inevitabili e il personale sanitario in “eroi in trincea”.  Il numero esorbitante di morti, però, riguarda in primo luogo la scelta politica di tutelare gli interessi di Confindustria e di quegli imprenditori che hanno proseguito la produzione senza alcuna misura di sicurezza. Le disposizioni in merito alle attività produttive e il braccio di ferro su quali categorie vadano considerate «essenziali» e sulle tutele inderogabili da garantire a chi lavora, hanno messo a nudo lo scontro tra il valore delle vite di lavoratrici e lavorator* e il profitto. A causa del razzismo e del sessismo, per molte lavoratrici e lavorator* è ancora più difficile anche soltanto usufruire dei congedi e dei permessi previsti dalla legge, perché temono future ritorsioni.

Di fronte alla pandemia e ai suoi effetti differenziati, è quanto mai centrale mettere in relazione e comunicazione tutte queste condizioni che rischiano di essere drasticamente isolate e per questo ancora più esposte alla violenza, oppresse e sfruttate.

Questo è il nostro impegno politico nel presente e per il futuro che ci aspetta oltre la pandemia. Oggi abbiamo il compito di dare visibilità e voce a chi in modi diversi sta vivendo gli effetti delle misure di contenimento del contagio: a chi resta a casa e può evitare il contagio solo esponendosi ancora di più alla violenza domestica, a un lavoro sempre più intenso, al peso della povertà attuale e futura. Oggi, per far emergere tutte le situazioni di sfruttamento, dobbiamo essere presenti e consentire una presa di parola anche a chi non può «stare a casa», ma è costrett* a lavorare in condizioni rese ancor più dure dalla mancanza di sicurezza per la propria salute e dal razzismo.

Dobbiamo sostenere con ogni mezzo tutte le pratiche di cura e di solidarietà nate spontaneamente per far fronte alle difficoltà dell’isolamento, tutte le mobilitazioni e gli scioperi di chi non accetta di ammalarsi e morire per il profitto. Oggi dobbiamo continuare le lotte che ci aspettano domani e dare forza al progetto di trasformazione contenuto nel nostro Piano Femminista contro la violenza.

Riconosciamo più che mai l’urgenza di un femminismo e transfemminismo che sappiano portare avanti una battaglia contro il sistema capitalistico che, con la devastazione ambientale, la violenza estrattivista e gli allevamenti intensivi, ha rimodulato il mondo a suo uso e consumo, creando le basi per la diffusione incontrollabile di questa epidemia. Da questa fase si esce con la coscienza che il cambiamento del nostro rapporto con gli ecosistemi è ineluttabile e che la loro cura deve essere trasformata in una forma di lotta.

Ci opporremo a ogni intervento – a partire da quelli previsti dal decreto «Cura-Italia» ‒ che affronti l’emergenza riproducendo gerarchie sociali e condannando alla miseria chi, nel lavoro riproduttivo e in quello produttivo, ha sostenuto con la propria precarietà la riproduzione dell’intera società.

Per questo da subito rivendichiamo un reddito di autodeterminazione accessibile a tutte e tutt*, incondizionato e individuale, che non solo risponda alle difficoltà imposte dalla quarantena, ma che permetta anche di sottrarci al ricatto della violenza maschile e di genere e a quello di dover accettare di lavorare a qualunque condizione, salariale e di sicurezza, pur di sopravvivere.

Sosteniamo tutte le battaglie per l’aumento del salario, a partire da quelle portate avanti dalle lavoratrici impegnate negli ospedali e nelle attività di sanificazione, che oggi stanno pagando a carissimo prezzo la diffusione della pandemia. Proprio perchè riconosciamo la salute come una dimensione di benessere complessiva, rivendichiamo la necessità di non dimenticare la salute sessuale e riproduttiva: difendiamo la nostra possibilità di abortire chiedendo l’estensione dell’aborto farmacologico a 63 giorni, fuori dagli ospedali, nei consultori o attraverso tecniche di telemedicina.

Reclamiamo un permesso di soggiorno europeo senza condizioni, slegato dal lavoro e dalla famiglia e soprattutto immediato, perché oggi più che mai milioni di migranti rischiano di non poter accedere nemmeno alle cure mediche essenziali, o ai sussidi per l’emergenza e di ricadere in clandestinità per la perdita del lavoro.

Diamo voce al Piano femminista contro la violenza, tenendo viva la comunicazione politica e il coordinamento transnazionale con milioni di donne e soggettività dissidenti che in tutto il mondo stanno oggi combattendo contro il contagio e per non subire domani la violenza e le disuguaglianze imposte da questo sistema. L’8 e il 9 marzo non abbiamo potuto scioperare, ma lo sciopero e la lotta femminista e transfemminista globale non si fermano: appena sarà possibile, ci riverseremo nelle piazze e non solo, per ribadire che ci vogliamo vive e libere da qualsiasi forma di violenza e oppressione.

Lottiamo tutti i giorni, come e più di prima!

Non una di meno